PREMESSA
Innanzi tutto vediamo una caratteristica
psicologica comune a quasi tutte i disturbi psicosomatici: la
ALEXITIMIA.
Oggi la psicopatologia rubrica sotto la
diagnosi di alexitimia, la profonda difficoltà a riconoscere e a
nominare i propri stati emotivi. Si tratta di un congelamento affettivo
della vita umana. La sua diffusione più recente sembra indicarci che
questa sindrome intercetta un disagio specifico della nostra Civiltà.
Il nostro tempo non è più quello dei grandi folli, della rivolta eroica
della follia, del suo elogio anche ideologico che ha sedotto molti
intellettuali – da Erasmo da Rotterdam a Deleuze -, ma quello di un
conformismo sospinto che tende a spegnere il desiderio del soggetto in
un grigio uniformismo.
Un grande psicoanalista come Winnicott, già negli anni
cinquanta-sessanta del secolo scorso, ebbe il grande merito clinico,
insieme ad Helene Deutsch, di aprire le ricerche della psicoanalisi ad
una forma psicopatologica che non aveva più a che fare con la rottura
drastica dei rapporti del soggetto con la realtà che si riscontra, per
esempio, nei quadri psicotici.
Se nel soggetto delirante l’inconscio esplode a cielo aperto travolgendo
la realtà, in queste nuove forme di sofferenza è il soggetto che perde
contatto con il proprio inconscio, dunque con la propria vita emotiva.
Il risultato è una vita che si smarrisce in superficie perché non è più
in grado di entrare in contatto con il proprio desiderio. Winnicott ha
descritto queste personalità con il termine di “falso sé”. Si
tratta di soggetti che indossano una maschera sociale per scongiurare il
rischio - avvertito sempre come imminente -, del proprio crollo e che,
in questo modo, perdono la capacità, come si esprime Winnicott, di
“vivere creativamente” e di “sentirsi reali”.
E’ quello che più recentemente Bollas teorizza come “personalità
normotica”, ovvero individui che pur essendo profondamente infelici si
rifugiano dietro una vita adattata, apparentemente normale. Questi
quadri non sono affatto lontani dall’attuale alessitimia.
Essi rafforzano l’idea che il mito del nostro tempo sia quello
dell’adattamento collettivo al principio di prestazione che, come tale,
esclude di per sé la vita emotiva, il sogno, l’immaginazione, lo
slancio, tendenzialmente sempre in perdita secca, del desiderio.
Avvertire la spinta del desiderio ci espone fatalmente al rischio dello
smarrimento. Meglio allora mantenersi separati dalla sua forza,
escluderla, meglio diventare una macchina efficiente priva di emozioni.
Dietro questa apparentemente nuova etichetta clinica non dovremmo allora
leggere una tendenza che non investe solo la vita individuale, ma anche
quella collettiva?
Il dominio del principio di prestazione sembra non conoscere più argini;
la normalizzazione della vita stritola il pensiero critico e le
possibilità del nostro futuro. La caduta delle emozioni e del loro
riconoscimento non sono affatto estranee a questo dominio.
Esiste forse una dimensione generalizzata dell’alessitimia che coinvolge
la vita attuale della Polis?
La psicoanalisi insegna che il dolore che non conosce lacrime - che non
trova possibilità di simbolizzarsi -, tende a ritornare direttamente nel
reale. Per esempio in una lesione di origine psicosomatica.
Ma quale sarebbe lo statuto di questo ritorno nella nostra vita
collettiva?
Ne suggeriva un esempio drammatico Michele Serra in una sua recente
Amaca: l’orrore per la barbara uccisione di Khaled Asaad non ha trovato
alcun eco significativo in Occidente. Il terrore del crollo ci ha
anestetizzato, resi alessitimici? E quale ritorno nel reale questa
assenza di simbolizzazione potrà provocare? (
vedi
qui la fonte )
▪
"Tra
fattori psicologici e sociali e le risposte emozionali e fisiche, vi è un
rapporto non sempre facilmente definibile. Le risposte miste, emozionali e
fisiche, vengono facilmente definite psicosomatiche. Per descrivere il rapporto esistente tra determinanti psicosociali e malattia
psicosomática è necessario definire in via preliminare il significato da
attribuire a quest'ultima.
Il
termine « psicosomatico » viene usato in contesti e con significati molto
diversi, che hanno in comune solo un vago riferimento ai rapporti tra « mente
» e « corpo ». A volte, il termine viene utilizzato per indicare quei sintomi
somatici soggettivi che, senza alcuna base organica dimostrabile, si associano
a disturbi di tipo nevrotico. Ciò vuol dire che il disagio psicologico, la
sofferenza data da sindromi ansiose e depressive, si associano frequentemente a
contemporanee manifestazioni fisiche, che sono sentite dai pazienti come
un'unica cosa. Spesso la persona si rende conto soltanto della sofferenza a
livello fisico, eludendo involontariamente la componente emotiva. Si intende per psicosomatica un ampio campo della patologia caratterizzata da
alterazioni anatomo-patologiche e da disturbi funzionali (e quindi
tradizionalmente di competenza medica) dove tuttavia è possibile esservi anche
una componente psicogenetica, cioè cause di natura psicologica."
Vediamo
insieme in questa pagina cosa dice il Prof. Paolo Pancheri, ordinario di Clinica
Psichiatrica all'Università di Roma e direttore della SIMP, Società Italiana
Medicina Psicosomatica. Il paragrafo su riportato indica come spesso le persone
che involontariamente, per qualsiasi causa, esperimentano la difficoltà
di riconoscere od esprimere il loro disagio psichico per mezzo delle
parole e delle emozioni, lo esprimono per mezzo di sintomi fisici. Nel
seguito di questa pagina vedremo come accade che gli eventi ambientali
si traducono in eventi psicologici e psicosomatici.

"L'organismo vivente si evolve attraverso una
continua interazione con l'ambiente fisico e biologico che lo circonda.
Strutture biologiche sempre più complesse e specializzate nascono, si
sviluppano e si perfezionano attraverso processi evolutivi di milioni di anni
per ottimizzare le capacità di sopravvivenza dell'individuo e della specie.
Gli organismi viventi che ci circondano, e noi
stessi, portiamo impressa nel nostro codice genetico tutta la storia evolutiva
della vita, fissata temporaneamente nel programma della specie a cui
apparteniamo. A stadi evolutivi superiori corrisponde una sempre maggiore complessità del sistema nervoso centrale (SNC), finalizzata ad aumentare la
plasticità adattativa dell'individuo di fronte agli stressors ambientali.
Plasticità, adattabilità e reattività integrata sono dunque le caratteristiche che
permettono un migliore
adattamento alle molteplici richieste dell'ambiente attraverso un continuo
feedback di stimoli e risposte che integra l'individuo nel mondo che lo
circonda."
In
questo paragrafo il Prof. Pancheri evidenzia una caratteristica molto
importante del cervello e del sistema nervoso, che è la sua
plasticità. In particolare durante gli anni evolutivi, dalla nascita al
18° anno circa, il sistema nervoso centrale viene modellato
dall'ambiente, in quanto naturalmente il cervello tende a formarsi in
conformità con gli stimoli che gli giungono dall'ambiente dove cresce.
Questo è il processo di adattabilità del cervello. Una volta adulto, il
cervello umano risulterà essere il più conforme possibile all'ambiente
dove è cresciuto, cioè massimamente adattato a quell'ambiente.
Leggiamo il seguente paragrafo, dove viene descritto, dal Prof. Pancheri,
l'evoluzione del sistema nervoso centrale (SNC) e come l'ambiente e le
esperienze ambientali influiscono sulla formazione di esso e sulla
formazione delle correlate funzioni psicologiche, in particolare quelle
dell'adattamento.

Evoluzione
del SNC (Sistema Nervoso Centrale) e adattamento
Lo studio dell'evoluzione del sistema nervoso nelle varie specie
animali mostra come essa si sia
svolta essenzialmente attraverso quattro fasi, a cui corrispondono diverse
modalità adattative dell'organismo all'ambiente (fig. I).
Fig.
I. Evoluzione dei SNC. Nel cervello dei rettili le principali strutture nervose
centrali sono rappresentate dai nuclei della base, essenzialmente deputati al
controllo del movimento. Nei mammiferi appare il sistema limbico, struttura
deputata a coordinare e ad integrare le reazioni emozionali, in quelli superiori
e nell'uomo avviene lo sviluppo preponderante delle strutture corticali, sede
dei processi cognitivi [da Mac Lean, 1975 (3)1.
La
prima
fase (o livello evolutivo) è rappresentata dall'attività riflessa elementare.
Essa è mediata da catene neuronali relativamente
semplici che permettono di rispondere con un'attività motoria elementare a
stimoli semplici di carattere sensoriale, sulla base di un programma
relativamente fisso e poco modificabile. Essa è tipica degli animali inferiori,
ma
è presente anche in organismi a sistema nervoso centrale più evoluto.
La seconda fase corrisponde alla comparsa di strutture centrali
essenzialmente deputate a coordinare l'attività motoria dell'organismo. Sul piano
anatomico essa vede la comparsa di centri nervosi più evoluti che integrano
vari tipi di stimolazione sensoriale per controllare attività motorie
notevolmente complesse. Questa organizzazione nervosa, tipica dei rettili, è
anch'essa presente nel sistema nervoso centrale degli organismi più evoluti ed
è rappresentata dai grandi nuclei della base dell'encefalo (nucleo caudato e
nucleo striato).
Nella
terza fase, caratteristica dei primi Mammiferi,fa la sua comparsa una nuova
struttura, finalizzata ad integrare l'attività motoria (comportamento) con le
strutture somatiche e viceversa. Questa struttura è il sistema limbico,
costituito da una serie di strutture nervose della base dell'encefalo e da una
parte della corteccia strettamente connessa funzionalmente a tali strutture
(fig. 2).
La comparsa del sistema limbico permette all'organismo di integrare un
gran numero di informazioni sensitivo-sensoriali di provenienza sia esterna che
interna, di memorizzarle, e di utilizzarle per attivare programmi complessi di
tipo comportamentale e biologico finalizzati ad ottimizzare sia l'adattamento
che la sopravvivenza. Questa attivazione biologico-comportamentale, organizzata
e memorizzata dal sistema limbico, è la caratteristica fondamentale delle
reazioni emozionali caratteristiche degli organismi superiori. L'emozione
diviene così un potente strumento finalizzato all'adattamento ed alla
sopravvivenza, sia
dell'individuo che della specie. Nella quarta fase, tipica dei Mammiferi
superiori e dell'uomo, si verifica un notevole sviluppo di strutture nervose,
localizzate nella corteccia, con il compito di elaborare a livello simbolico le
informazioni di varia provenienza. Lo sviluppo della corteccia permette
processi di simbolizzazione e di astrazione che sono alla base del linguaggio,
la memorizzazione di ampie quantità di informazioni, il loro richiamo ed il
loro confronto con le informazioni attuali. Essa permette, soprattutto, una
valutazione cognitiva degli stimoli che agiscono sull'individuo.
Queste caratteristiche, già presenti nei mammiferi
superiori e nei primati, appaiono nettamente potenziate nell'uomo, nel
quale il notevole sviluppo dell'encefalo è soprattutto dovuto
all'aumento delle sue strutture corticali (fig. 3).
 
Nell'uomo, lo sviluppo della corteccia e,
di conseguenza, dei fattori cognitivi ha comportato la comparsa di nuovi schemi
di comportamento adattativo e difensivo rappresentati dalla creazione di
strutture sociali complesse e da elaborati schemi interattivi tra individui
della stessa specie.
E'
interessante osservare che il processo evolutivo del SNC non ha comportato, con
la comparsa delle nuove strutture, una scomparsa o una atrofia delle precedenti,
ma una loro sovrapposizione ed una loro integrazione per ottimizzare
l'adattamento. Per quanto riguarda in particolare i nuclei motori della base, il
sistema limbico e la corteccia, le tre strutture mantengono le loro tre funzioni
distinte così come sono state programmate dall'evoluzione
(movimento, emozione e pensiero) ma allo stesso tempo integrate funzionalmente
tra di loro. Mac Lean ha dunque postulato l'esistenza di un cervello « uno e
trino » nel quale varie funzioni geneticamente programmate interagiscono
continuamente per generare la grande variabilità dei comportamenti adattativi
osservabili.

Interazioni Psicosociali, mediazione cognitiva e risposta biologica
Nei Mammiferi inferiori, a ridotto sviluppo corticale, l'attivazione
emozionale si svolge secondo schemi relativamente semplici. Gli stimoli esterni
sono in parte di natura puramente fisica (freddo, caldo, agenti naturali) ed in
parte derivano da interazioni sociali poco strutturate: minaccia di aggressione,
stimoli sessuali, competizione per il cibo e così via.
In
queste condizioni la mediazione cognitiva è relativamente scarsa e l'animale
reagisce attivando una serie di comportamenti in parte geneticamente programmati
ed in parte appresi per allontanare lo stimolo stressante. Parallelamente, viene
attivato un programma biologico di supporto aviazione che si accompagna
caratteristicamente alla fase dell'attivazione emozionale.
li programma biologico si svolge attraverso l'attivazione dei sistema
nervoso vegetativo (SNV) e dei sistema neuroendocrino-endocrino; questi due
sistemi a loro volta agiscono sul sistema metabolico, sul sistema immunitario e
sullo stato funzionale dei vari organi adattandoli funzionalmente alle necessità
dell'azione. Questa reazione, definibile anche come reazione di stress, è, nell'animale, usualmente di tipo acuto e tende a disattivarsi
rapidamente una volta allontanato lo stimolo stressante.
L'attivazione/disattivazione periodica sia della reattività
comportamentale che della reattività biologica permette un adattamento ottimale
alle richieste esterne e permette, al tempo stesso, il mantenimento di una
condizione di buon funzionamento dei sistemi biologici dell'organismo.
L'aumento dello sviluppo corticale, caratteristico dei primati e
soprattutto dell'uomo, tende tuttavia a modificare la linearità della
reazione
emozionale nei suoi aspetti sia biologici che comportamentali.
Nell'uomo, si osserva anzitutto una
netta
prevalenza degli stressors di tipo psicosociale. Caratteristica dell'uomo è
infatti la costruzione di complesse strutture sociali interattive basate su
ruoli, gerarchie e norme di comportamento. Ciò comporta che la fonte di stimolo
emozionale deriva solo in misura minima da stressors di natura fisica, mentre è
dominante la stimolazione che deriva dal rapporto interpersonale.
In secondo luogo, nell'uomo lo
stimolo che
innesca la reazione emozionale è di natura mediata, in quanto è
preventivamente sottoposto al filtro della valutazione cognitiva rappresentata
dal ricordo di esperienze precedenti, da inferenze anticipative, da associazioni
simboliche con situazioni traumatizzanti e dalla situazione sociale in cui
avviene la stimolazione (fig. 4). L'importanza dei sistema cognitivo fa sì che
lo stimolo che innesca la reazione emozionale può, talvolta, originarsi
all'interno del soggetto partendo da semplici ricordi o da fantasie non indotti
da alcuno stimolo esterno.
Va
infine rilevato che, nell'uomo, possono essere anche modificate le modalità
della risposta emozionale. Si è visto che, nell'animale, la risposta
emozionale tende a manifestarsi in modo bilanciato attraverso le sue componenti
comportamentale e biologica. La prima è finalizzata
ad allontanare lo stressor, la seconda
serve
a fornire il supporto somatico-metabolico all'azione. Nell'uomo la complessità delle
interazioni sociali e la natura mediata dello stressor
fanno sì che, in gran parte delle situazioni di attivazione emozionale,
l'azione diretta non è possibile o deve essere spostata su di un altro
oggetto o deve essere ritardata
nel
tempo. In questi casi, il « cervello limbico » attiva la reazione emozionale a
livello biologico, ma non livello comportamentale. Ciò comporta una possibile
attivazione biologica cronica del SNV o del
sistema neuroendocrino-endocrino in quanto lo stressor psicosociale non può
essere immediatamente allontanato. Questo meccanismo è particolarmente
importante nel caso i stimoli di origine intrapsichica in cui l'attivazione
emozionale non può essere ridotta con
comportamenti in senso stretto, ma occorre far ricorso a meccanismi
intrapsichici di gestione o di «coping».
Lo
sviluppo corticale dell'uomo, il corrispondente sviluppo dei meccanismi
cognitivi, l'enorme
potenzialità stressante dei rapporti psicosociali tendono dunque ad interferire
con la normale e bilanciata reazione emozionale creando apparentemente le
condizioni per uno stato di stress cronico di possibile significato patogeno.
Va
tuttavia rilevato che l'apparato cognitivo può anche funzionare come un
sistema adattativo e difensivo. La sua azione di « filtro » nei confronti
degli stimoli psicosociali protegge l'individuo da attivazioni emozionali troppo
frequenti o troppo intense che non potrebbero essere controllate da
comportamenti finalizzati. Inoltre, come si è detto in precedenza, l'apparato
cognitivo può aiutare l'individuo a ridurre l'attivazione emozionale cronica
con opportune strategie di « coping ».

Caratteristica
dell'uomo sembra dunque essere l'oscillare
tra l'integrazione e il conflitto del
suo cervello limbico e del suo cervello corticale.
L'integrazione tra i « due cervelli » permette il normale, equilibrato svolgersi della reazione emozionale
di fronte agli stimoli psicosociali, esattamente come avviene nell'animale di
fronte a stimoli direttamente minacciosi per la sua sopravvivenza. Va comunque
rilevato che, anche nell'uomo, gli stressors che innescano la reazione
emozionale possono essere fondamentalmente ricondotti ai tre programmi basilari
di sopravvivenza: sopravvivenza individuale, sopravvivenza della specie,
sopravvivenza del gruppo sociale. L'unica, ma fondamentale differenza è
che nell'uomo il rapporto tra stressor e programma di sopravvivenza è di natura
molto più indiretta e mediata. E' invece
in situazioni di conflitto tra cervello limbico e cervello corticale che si
possono creare i precursori della malattia somatica.
Sia
infatti condizioni di attivazione emozionale cronica senza possibilità di
scarico comportamentale che una sistematica inibizione (o blocco) dei cervello
limbico ad opera del cervello corticale con conseguente povertà della reazione
emozionale possono condurre precursori della malattia somatica attraverso meccanismi che verranno descritti in capitoli
successivi.
Il tipo e la natura degli eventi
stressanti che agiscono sull'individuo nel corso della sua esistenza hanno un
ruolo fondamentale nei apporti tra cervello limbico e cervello corticale. La
catena degli eventi che ha agito sull' individuo in precedenza, la reazione
emozionale che essi hanno indotto e l'elaborazione di ricordo di queste
esperienze condizionano la reattività psicobiologica dell'individuo nell' impatto
con successivi eventi esistenziali.
Sull'individuo, inoltre, possono agire
per lunghi periodi di tempo microstimoli emozionali che non possono configurarsi
in « eventi stressanti esistenziali », ma che possono agire con effetto
sommatorio inducendo un'attivazione emozionale cronica non coscientemente percepita dal soggetto.
In
altri casi lo stressor che deriva dalle richieste psicosociali è di natura
così mediata da non poter essere valutato cognitivamente come tale. Esso,
tuttavia tramite associazioni simboliche mantiene la capacità di attivazione emozionale cronica che può indurre
scompensi fisiologici e, infine, la
malattia.
Lo
studio dei rapporti tra stressors psicosociali e malattia diviene così molto
importante non solo per il suo significato clinico-terapeutico ma soprattutto
per il suo significato preventivo. Esso infatti permette di ottenere informazioni sia sul significato e sull'importanza degli eventi stressanti (o
delle situazioni stressanti) nel determinismo della malattia che sui
meccanismi di controllo e di gestione emozionale, la cui alterazione può
condurre ad un indebolimento delle reazioni difensive biologiche.
Questo studio, obiettivamente difficile per la molteplicità delle
variabili in gioco e per la complessità dei disegni sperimentali che debbono
essere utilizzati, può essere affrontato attraverso due direttrici
principali: lo studio epidemiologico delle malattie psicosomatiche e lo studio
sistematico dei rapporti tra eventi stressanti esistenziali e malattia.

L'epidemiologia, partita inizialmente come studio della diffusione
spaziale (geografica) e temporale (storica) delle malattie infettive, ha esteso
successivamente il suo campo di indagine a tutte le malattie di interesse
sociale e, quindi, a gran parte delle malattie psicosomatiche. Studiando
infatti l'incidenza differenziale delle varie malattie in popolazioni appartenenti a contesti sociali e culturali diversi è possibile ottenere
informazioni circa taluni determinanti psicosociali della malattia.
Teoricamente, infatti, una volta esclusi
determinanti di tipo
strettamente biologico come le differenze dovute al sesso ed alla razza, le
variazioni di morbilità e mortalità di una determinata malattia dovrebbero
essere attribuite a fattori di tipo ambientale in generale e di tipo
psicosociale in particolare.
Sul piano pratico, tuttavia, lo studio
epidemiologico dei
determinanti sociali della malattia è complicato da numerosi problemi.
Anzitutto, non può essere trascurata l'azione di determinanti di tipo puramente
« fisico » come ad esempio le differenze climatiche o l'esposizione
sistematica ad agenti tossici atmosferici
e alimentari. In secondo. luogo, vanno tenuti presenti i problemi metodologici
relativi alle modalità di accertamento diagnostico delle varie malattie, che
possono variare notevolmente sia attraverso il tempo che attraverso i diversi
contesti « sociomedici » dove la diagnosi viene effettuata. Analogamente,
possono variare in modo notevole anche i criteri di classificazione nosografica,
con evidenti influenze sull'interpretazione dei risultati dell'indagine
epidemiologica.
Ma
il problema più importante riguarda indubbiamente l'identificazione e la
discriminazione dei diversi fattori psicosociali presumibilmente
responsabili delle differenze di morbilità o di mortalità riscontrate. L'organizzazione sociale può infatti agire sulla
struttura biologica degli
individui che la compongono in modi molteplici e quasi sempre tra di loro
interdipendenti. I modi ed i tempi dell'attività lavorativa, la tipologia
dell'organizzazione famigliare, le abitudini alimentari e voluttuarie sono alcuni esempi
di condizionamenti di tipo psicosociale che possono agire a livello
individuale sui precursori della malattia somatica. La struttura sociale può
tuttavia esercitare la sua influenza psicobiologica in modi più sottili, ma
non per questo meno intensi. Così, ad esempio, il livello di insicurezza
sociale può agire condizionando e modificando le modalità di reazione di
stress individuale, le regole sessuali possono agire a livello dello stress
riproduttivo, e i rapporti famigliari socialmente condizionati possono alterare
i legami di attaccamento. e lo stress da perdita. Inoltre, l'organizzazione
sociale può condizionare in modo notevole la struttura cognitiva e le modalità
di reazione emozionale dei suoi componenti facilitando, ad esempio, le modalità
comportamentali di espressione delle emozioni o, viceversa, inibendole socialmente e facilitando la
comparsa di condizioni di stress cronico.
La struttura sociale, in un determinato luogo ed in
un preciso momento storico, agisce dunque attraverso le sue molteplici
possibilità di condizionamento (fattori predisponenti primitivi) sulle
modalità di reazione dei singoli individui (fattori predisponenti secondari)
alterando
la reattività biologica di fronte a stimoli scatenanti (fig. 5 e tab. 11). I determinanti
psicosociali agiscono in tal modo come fattori di rischio
psicosomatico che, in associazione a determinanti somato-biologici ed
emozionali individuali, possono indurre la malattia.
Ciò
significa che i fattori psicosociali, in linea di massima, non possiedono una
specificità etiopatogenetica, non sono legati da un rapporto dose-effetto con la malattia e
possono agire in ogni punto della sua catena patogenetica.
Va
infine rilevato che l'organizzazione sociale in un determinato luogo ed in un
determinato momento può contribuire all'insorgenza della malattia
attraverso determinanti che non sono « psicosociali » in senso stretto, ma che possono
diventarlo in via mediata. Un esempio è dato dalle condizioni igieniche generali
della popolazione che di per sé possono favorire l'insorgenza di talune
malattie, ma che possono anche agire in via mediata psicosociale attraverso una
condizione di stress emozionale cronico legato all'insoddisfazione o alla
frustrazione del gruppo sociale di appartenenza.

Lo studio delle statistiche di mortalità per varie malattie
nell'ambito della medesima popolazione attraverso un periodo di tempo definito può dare alcune informazioni di massima sui fattori di rischio
psicosomatico. Al tempo stesso, questo studio mette in evidenza i rilevanti
problemi metodologici ed i rischi interpretativi a tutti gli studi di tipo
epidemiologico.
Un'analisi dei dati statistici relativi alle cause di mortalità negli
USA in alcuni anni campione nel periodo 1900-1980 mostra notevoli variazioni
nei tassi di mortalità relativi ad alcune importanti malattie di interesse
psicosociale. In particolare, si rileva, accanto ad una
progressiva riduzione della mortalità per malattie infettive, un aumento della
mortalità per tumori maligni ed un andamento bidirezionale per quanto
riguarda le malattie cardiache e cerebrovascolari con un netto aumento fino agli
anni '60 ed una successiva riduzione (fig. 6).
Questi dati rappresentano un buon esempio delle
difficoltà
interpretativi in campo epidemiologico. Se, infatti, il miglioramento delle
condizioni igieniche generali e l'introduzione delle terapie antibiotiche
possono facilmente spiegare il crollo della mortalità per malattie infettive,
assai più complessa appare l'interpretazione dei dati relativi ai tumori ed
alle malattie cardiache e vascolari.
Ci si trova infatti di fronte ad un aumento della mortalità per queste
malattie parallelo ad un aumento degli indici di benessere economico e
sociale, ad un miglioramento dell'assistenza
sanitaria e della tecnologia medica e, più in generale, ad un aumento della
«qualità della vita». D'altra parte, la possibilità che questo aumento sia
correlato all'elevazione della vita media verificatasi negli USA nel medesimo
periodo di tempo può essere esclusa in quanto la tendenza di mortalità e
morbilità sia dei tumori che delle malattie cardiovascolari si mantiene anche
dopo la correzione effettuata in funzione dell'allungamento della vita media.
Per
quanto riguarda i tumori, l'aumento sia della morbilità che della mortalità
riscontrato in tutto il mondo occidentale è stato posto in rapporto ad alcune
condizioni secondarie al processo di industrializzazione quali il deterioramento ecologico, la produzione
industriale degli alimenti, l'eccessivo
consumo di farmaci inutili e l'aumento di alcune abitudini voluttuarie. Nessuno
di questi fattori ha tuttavia dimostrato, da solo, di poter spiegare i dati
statistici relativi all'aumentata incidenza dei tumori.
In
tempi più recenti è stata avanzata l'ipotesi che altri fattori, di natura più
prettamente psicosociale legati alle caratteristiche della società
industriale moderna, possano agire come concause del determiniamo dei tumori. In
particolare, è stato ipotizzato che la vita associata nelle grandi società
industriali dell'Occidente tenda sistematicamente ad inibire le manifestazioni
comportamentali delle emozioni, soprattutto di fronte a gravi eventi di
separazione e di perdita. Anche se una serie di studi clinico-sperimentali
hanno dato un certo supporto empirico a questa ipotesi, risulta comunque
difficile poter estrapolare sul piano psicosociale dati che possono
semplicemente riferirsi a caratteristiche di personalità specifiche di gruppi
di individui particolari.
Resta comunque aperto l'interrogativo sul possibile
« prezzo psicosomatico » che i componenti delle società industrializzate
occidentali devono pagare in termini di aumentata morbilità e mortalità
tumorale come contropartita del miglioramento della « qualità della vita
».
Più
indicativi appaiono i dati relativi alle
malattie
cardiovascolari. L'analisi delle curve
temporali di mortalità per malattie coronariche mostra un progressivo
aumento, negli USA, fino alla metà degli anni '60, con una successiva
inversione di tendenza che sembra tuttora continuare (fig. 7). Per quanto riguarda il progressivo aumento delle malattie coronariche dagli inizi dei
secolo fino agli anni '60 riscontrato in tutte le società occidentali
industrializzate, esso è stato posto in rapporto a vari indici sociologici
suscettibili di aumentare l'ansia, ai vissuti di « hopelessness » e all'insoddisfazione
esistenziale in ampi strati della popolazione. In particolare, è stato
messo in evidenza come la malattia coronarica si associ significativamente ad
un particolare tipo di comportamento (tipo «A») indotto dalle pressioni
sociali di una società altamente competitiva e finalizzata a rinforzare i
comportamenti produttivi soprattutto in senso economico.
In
questa prospettiva, gli altri più tradizionali fattori di rischio coronarico
(fumo, errori alimentari, carenza di attività fisica, ecc. verrebbero
considerati come comportamenti secondari alla presenza di una « personalità di
tipo A », a sua volta socialmente condizionata.
L'importanza dei fattori sociali legati
all'industrializzazione è suggerita anche dal fatto che la morbilità/mortalità
per malattie coronariche è in genere superiore nei paesi a più alto sviluppo
economico-industriale. Anche se questo dato può, almeno in parte, essere posto
in rapporto a differenze di tipo genetico-razziale, l'importanza patogenetica
dei fattori socioambientali è stata confermata dagli studi sulle migrazioni da
paesi a bassa mortalità per coronaropatie a paesi con indice di mortalità
molto più elevato. I risultati di questi
studi hanno mostrato che l'indice di mortalità per coronaropatie negli immigrati si situa circa a metà tra quello del paese di origine e quello del
paese adottivo. Inoltre, esso è influenzato in modo notevole dal periodo di
permanenza nel paese di immigrazione: tanto maggiore è tale periodo, tanto più
grande è il rischio di coronaropatie.
Particolarmente interessanti sono gli studi sui
Giapponesi emigrati negli USA che, nel loro insieme, mostrano un tasso di mortalità
intermedio tra quello dei Giappone (relativamente basso) e quello degli USA
(elevato). Uno studio più analitico effettuato su
questi immigrati ha tuttavia mostrato un' incidenza di malattia coronarica
molto minore in quei soggetti che avevano mantenuto uno stile di vita legato in
modo più tradizionale al loro paese di origine (fig. 8). Ciò è stato
posto in rapporto ad un'azione protettiva della cultura giapponese più
centrata sulla competitività tra gruppi che non su quella tra individui,
caratteristica della cultura americana.
Negli ultimi dieci anni si è assistito, negli USA,
ad un'inversione nella tendenza all'aumento della mortalità per coronaropatie.
Ciò è stato attribuito in parte ad un miglioramento nelle tecniche
terapeutiche per il paziente coronarico, ed in parte ad un cambiamento nello
stile di vita in ampi strati della popolazione, in seguito alla
sensibilizzazione operata dai mass-media sui fattori di rischio coronarico.
Se questa interpretazione venisse confermata, ci si troverebbe di fronte al
primo esempio di una struttura sociale che, presa coscienza dei fattori di
rischio psicosomatico da essa generati, mette in atto adeguate procedure di
correzione.
Va rilevato, infatti, che negli studi sui
fattori
psicosociali e malattia si tende quasi sempre a mettere in evidenza le
potenzialità patogene insite nelle diverse strutture sociali più che le loro
caratteristiche «protettive» nei confronti delle medesime malattie. Ciò è
particolarmente evidente negli studi centrati sulle popolazioni dell'Occidente
industrializzato considerate «a priori» come esposte ad un maggior rischio
psicosomatico.
Anche
gli studi epidemiologici sui fattori psicosociali dell'ipertensione arteriosa
hanno, nel loro insieme, messo in evidenza il maggior rischio a cui sono
esposte le popolazioni che vivono in strutture urbane di tipo occidentale. Varie
revisioni dell'ampia letteratura sull'argomento hanno
messo in rilievo la tendenza all'aumento della pressione arteriosa ed il
maggior rischio di malattia ipertensiva nelle popolazioni che emigrano da contesti socioculturali di tipo agricolo e tradizionale in strutture urbane di
tipo più « occidentale ».
Pur
tenendo presenti le difficoltà metodologiche insiste in questo tipo di studi
(modalità e condizioni delle valutazioni pressorie, descrizione e misura
dei fattori psicosociali, campionamento delle popolazioni ecc.), il confronto
tra popolazioni dei medesimo gruppo etnico-razziale che vivono in contesti
socioculturali diversi permette di ottenere informazioni di rilevante interesse
psicosomatico.
Studi effettuati su comunità
Zulù che vivevano
rispettivamente in strutture urbane e comunità agricole hanno mostrato valori
pressori nettamente più elevati nelle prime, con una maggior tendenza
all'aumento dei valori pressori in funzione dell'età. Analoghe
considerazioni sono state fatte su guerrieri Keniani nomadi che mostravano
un significativo aumento della pressione arteriosa dopo il loro arruolamento
nell'esercito regolare. L'aumento era già evidente dopo sei mesi dall'arruolamento ed era persistente a sei anni di
distanza.
Prior e coll. in una
serie di studi su varie popolazioni di polinesiani hanno
rilevato evidenti differenze pressorie tra le popolazioni che vivevano in un
contesto socioculturale tradizionale agricolo con strutture
economiche elementari e popolazioni dei medesimo gruppo etnico-razziale che
vivevano in comunità urbane a struttura occidentale con strutture economiche più
complesse e sofisticate. Oltre ai maggiori valori pressori medi sia sistolici
che diastolici è stato rilevato l'aumento della pressione arteriosa con
l'aumentare del- l'età caratteristico delle popolazioni occidentali nel
gruppo urbano, aumento che non era rilevabile nel gruppo rurale-tradizionale (fìg.
9).
Sia
i risultati di questi studi che di quelli che, più analiticamente, hanno
correlato gli aumenti pressori al livello di interazione tra gli immigrati e la
comunità in cui venivano accolti sono stati posti in rapporto a differenze di tipo alimentare, ed in particolare ad una maggiore assunzione di
sodio alimentare da parte delle popolazioni urbane. Questo fattore può
anche essere, almeno in parte, responsabile delle differenze di valori pressori
tra popolazioni del medesimo gruppo etnico-razziale appartenenti a comunità
agricole o di pescatori.
Indubbiamente sia fattori strettamente
alimentari
che fattori legati ad una maggiore esposizione a influenze tossiche ambientali
possono spiegare una parte di questi dati epidemiologici. E' da ritenersi
tuttavia probabile che, almeno per quanto riguarda le migrazioni, la brusca
esposizione ad una nuova struttura sociale con rottura dei tradizionali rapporti
di gruppo caratteristici della società di provenienza induca un maggior livello
di incertezza e di insicurezza personale che si riflette in aumenti pressori
sistematici. Né possono, d'altra parte, essere sottovalutati fattori più specifici quali l'affollamento
caratteristico delle strutture urbane
ed il suo dimostrato effetto sui valori pressori.
Vari
studi epidemielogici suggeriscono una possibile importanza di determinanti
psicosociali anche nella patogenesi dell'ulcera peptica e dell'ulcera
duodenale in particolare. Va tuttavia rilevato che in questo settore i
problemi metodologici sono ancora più rilevanti rispetto alle malattie
cardiovascolari. I problemi di campionamento sono infatti notevoli, dati i
differenti metodi diagnostici e criteri di classificazione
usati. D'altra parte, un certo numero di ulcere può essere asintomatico o
comunque non venire correttamente diagnosticato soprattutto nell'ambito di
talune culture a bassa educazione sanitaria. Inoltre, risulta spesso
particolarmente difficile distinguere i fattori non strettamente psicosociali
(ad esempio alimentari) dai fattori dipendenti dall'azione della cultura
sull'individuo.
I
numerosi studi sull'argomento sono stati sottoposti a varie revisioni, con
risultati non conclusivi. L'incidenza dell'ulcera peptica varia
notevolmente in rapporto alle diverse aree geografiche e in rapporto a differenti aree del medesimo Paese. Queste
differenze geografiche sembrano essere
correlate positivamente con le statistiche dei suicidio nelle medesime aree.
Inoltre, l'incidenza di ulcera peptica sembra essere maggiore, in tutte le
aree considerate, tra le popolazioni urbane rispetto a quelle rurali, mentre i
numerosi studi esistenti
sui rapporti tra classe sociale e malattia hanno dato risultati
fondamentalmente contrastanti e non conclusivi. Più significativi i dati
relativi alla prevalenza dell'ulcera peptica in alcune attività lavorative
suscettibili di sottoporre l'individuo a condizioni di stress cronico.
Chirurghi, operai specializzati, addetti ai trasporti, controllori di volo
appartengono infatti, in base ai dati statistici disponibili, alle categorie
con maggior rischio psicosomatico per l'ulcera peptica. Le migrazioni hanno
dimostrato di avere un certo significato predisponente su particolari gruppi
di popolazione, anche se i dati disponibili a questo proposito sono meno
precisi rispetto a quelli disponibili per le malattie cardiovascolari. Nel
complesso, i numerosi lavori pubblicati suggeriscono indubbiamente un legame
tra stress cronico indotto socialmente ed ulcera peptica, ma non appaiono in
grado di identificarne le componenti specifiche.
Gli studi epidemiologici su alcune malattie di
particolare importanza sociale tendono dunque a suggerire la presenza di
un rapporto significativo tra struttura ed organizzazione sociale e
prevalenza di alcune malattie. Collateralmente, essi suggeriscono anche
un potenziale effetto di protezione nei confronti delle medesime o di
altre malattie da parte di strutture sociali differentemente
organizzate.

EVENTI
STRESSANTI e MALATTIA
L'approccio epidemiologico suggerisce la
possibilità che la complessa rete dei rapporti sociali, con le sue regole e
convenzioni, con le sue richieste dirette ed indirette sull'individuo, con le
sue fonti di sicurezza o di insicurezza, condizioni in qualche modo la reattività
biologica dei singoli individui incidendo sulla recettività alla malattia.
Le
considerazioni che si possono trarre da questo approccio sono tuttavia
necessariamente di carattere molto generale e, pur dando informazioni utili
per un intervento di « igiene sociale », non servono per spiegare i meccanismi che legano le interazioni sociali
all'organismo ed alle malattie che lo
possono colpire.
Lo studio degli eventi stressanti esistenziali
permette
di affrontare questo problema in modo più analitico e preciso. Definiamo a
questo proposito come « evento stressante esistenziale» qualsiasi
avvenimento osservabile e descrivibile verificatosi al di fuori della volontà
del soggetto o da esso provocato che abbia indotto un cambiamento significativo
nel suo flusso esistenziale ed un successivo sforzo di riadattamento alla nuova
situazione.
Da
questa definizione restano quindi escluse le normali, quotidiane transazioni
interpersonali, gli eventi previsti e ripetitivi di piccola entità e, in
generale, gli stressors emozionali acuti contingenti che non producono conseguenze rilevanti nella vita dei soggetto. Sono invece compresi tutti gli eventi,
previsti o imprevisti, positivi o negativi, che inducano una modificazione
non transitoria dell'assetto emozionale
del soggetto e richiedano la messa in atto di comportamenti correttivi o di
meccanismi di «coping» di particolare rilevanza.
La necessità di questa definizione è dovuta a
considerazioni di carattere metodologico. Se infatti si vuole affrontare in modo
scientifico il problema dei rapporti tra determinanti psicosociali e malattia
è opportuno isolare e definire operativamente, tra i molteplici stressors
derivanti dalle transazioni tra individuo ed ambiente, solo quelli che
presumibilmente agiscono in modo più intenso e persistente al fine di
poterli poi correlare con le variabili dipendenti prescelte (malattia,
precursori biologici della malattia, reazioni psicofisiologiche adattative).
Questa
voluta delimitazione dei campo di indagine non vuol togliere naturalmente valore
ed importanza alle microstimolazioni emozionali quotidiane che possono agire
con meccanismo sommatorio durante periodi di tempo piuttosto lunghi, né agli
stressors di provenienza intrapsichica che spesso possono indurre condizioni
di stress emozionale cronico. Essa si propone unicamente di fornire gli strumenti operativi per studiare in modo adeguato uno
degli aspetti del rapporto tra
ambiente sociale e malattia.
Utilizzando
questa definizione degli eventi stressanti esistenziali, il problema può essere
affrontato da due punti di vista: lo studio dei rapporti tra alcune precise
categorie di eventi stressanti esistenziali e la malattia (approccio
naturalistico) e lo studio effettuato invece con metodi di misura standardizzati
degli eventi stressanti visti nel loro insieme (approccio psicometrico). I due
metodi sono ovviamente complementari tra di loro in quanto affrontano il
problema rispettivamente da un punto di vista qualitativo e quantitativo.
Eventi
stressanti e malattia: l'approccio
naturalistico-qualitativo
Gli eventi stressanti esistenziali che sono stati
più studiati nei loro rapporti con l'insorgenza di malattie somatiche sono gli eventi
di perdita. Ciò è dovuto al fatto che gli eventi di
perdita
(morte, malattia o separazione da persone emozionalmente significative) sono
facilmente identificabili e descrivibili; inoltre essi inducono in genere
reazioni emozionali particolarmente intense e persistenti, e richiedono un
notevole sforzo di riadattamento esistenziale.
L'importanza
degli eventi di perdita sulle reazioni emozionali individuali è confermata da
un'incidenza significativa di eventi di separazione e perdita in età
infantile in soggetti che hanno sviluppato una depressione nell'età adulta
e dall'elevata frequenza di tali eventi nel periodo di tempo immediatamente
precedente la comparsa della depressione clinicamente conclamata.
I
dati più interessanti provengono dagli studi sui rapporti tra eventi
di perdita, malattia somatica e morte. I dati statistici relativi alla mortalità
nei soggetti che hanno perso recentemente un coniuge sono molto indicativi a
questo proposito e confermano in genere un preciso rapporto tra evento-perdita
ed aumento della mortalità anche se i relativi meccanismi non sono di
facile interpretazione.
Tra
i primi studi, di particolare rilevanza quello di Kraus e Lilienfeid che ha
mostrato un rapporto di mortalità fino a quattro volte superiore nei soggetti
che avevano subito la perdita del coniuge prima dell'insorgenza della
malattia somatica che in seguito li aveva condotti alla morte (tab. III).
Riguardo alle malattie somatiche specifiche è interessante notare l'alto
rapporto di mortalità per quanto
riguarda
le malattie cardiovascolari (lesioni vascolari del SNC e malattie cardiache),
l'aumentata incidenza di mortalità nel sesso maschile e la tendenza al decrescere
dei rapporto di mortalità per i gruppi di età più avanzata (tab. IV).
Lo
studio citato tende dunque a suggerire, su di una base puramente epidemiologica,
che i soggetti che hanno subito un lutto hanno un rischio psicosomatico
maggiore rispetto ai controlli. Esso tuttavia non chiarisce i rapporti
temporali esistenti tra il lutto stesso e la morte per malattia somatica. Alcuni
studi successivi hanno dato un notevole contributo a questo proposito. Rees e
Lutkin hanno seguito per sei anni un gruppo di 903 soggetti che avevano subito
la morte di un famigliare stretto e li hanno confrontati con 807 controlli accoppiati per sesso, età e stato civile, che vivevano nella medesima comunità.
I risultati hanno mostrato un rapporto di mortalità assai elevato e
statisticamente significativo durante il primo anno successivo alla morte del
famigliare. Tale rapporto, pur essendo sempre elevato, è andato decrescendo
negli anni successivi. Il rapporto di mortalità, inoltre, è risultato
nettamente superiore nei soggetti che avevano perduto il coniuge rispetto ai
soggetti che avevano subito la perdita di un altro famigliare stretto.
Altri studi che hanno posto in evidenza l'indice di
mortalità più elevato nelle persone che hanno subito un lutto, hanno
confermato come il periodo di massimo rischio psicosomatico sia localizzato al
periodo di sei mesi o di un anno successivo all'evento di perdita. L'indagine qualitativa eseguita parallelamente su altri eventi
oltre a quelli di lutto ha confermato l'importanza dominante di questi ultimi
rispetto ad altri eventi con significato indiretto di perdita come, ad esempio, il cambiamento di residenza o il
pensionamento.
Nonostante
i risultati negativi di alcuni studi, basati su campionamenti non sufficientemente ampi,
i dati ricavabili dalle indagini epidemiologiche
sul lutto tendono a confermare un rischio di mortalità per malattie somatiche
molto più elevato in soggetti
che
hanno subito una grave perdita rispetto ai controlli. Il rischio sarebbe
maggiore per i soggetti che hanno subito la perdita in giovane età, in
soggetti che hanno perduto il coniuge ed il massimo rischio sarebbe localizzabile entro il primo anno successivo alla perdita.
E'
interessante notare che questo periodo di massimo rischio somatico coincide con
il periodo di massimo rischio di suicidio. E' stato infatti rilevato che
l'incidenza del suicidio in vedovi nei sei mesi successivi al lutto è di 2,5
volte superiore ai controlli nei sei mesi successivi al lutto, si riduce a 1,5
nei tre anni successivi e ritorna ai valori basali dopo il 5' anno dal lutto. Questo dato è stato confermato da un altro studio che ha rilevato, nel
50% dei suicidi verificatisi nel West Sussex, la perdita di un genitore entro i
tre anni precedenti il suicidio. I dati dello studio retrospettivo di
Klaus e Lilienfeld citato in precedenza confermano la coincidenza del rapporto di mortalità da malattie somatiche e rapporto da mortalità da suicidio
per gruppi di età, con una tendenza al decrescere di tale rapporto con
l'aumentare dell'età.
Questi,
ed altri studi centrati sul rapporto temporale tra esperienza della perdita e
suicidio o tentativo di suicidio confermano la massima incidenza di stati
depressivi nell'anno immediatamente successivo al lutto o alla perdita. La
coincidenza tra questo rapporto temporale e quello relativo alla mortalità
per malattie somatiche suggerisce dunque l'ipotesi che depressione da lutto e
suscettibilità alle malattie
somatiche siano tra di loro significativamente collegate.
La
possibilità che un evento di perdita induca modificazioni del substrato
biologico individuale tali da favorire l'insorgenza della malattia è confermato
da numerosi studi clinici.
Le
osservazioni relative alla variabilità di manifestazioni della depressione da
perdita e quelle relative ai rapporti tra perdita reale, perdita minacciata e
perdita simbolica sono alla base di uno dei primi e più frequentemente citati
lavori sui rapporti tra perdita e comparsa di malattie somatiche. In questo
studio, non controllato, effettuato su di un gruppo di pazienti ammesso in un
ospedale generale è stata riportata un'incidenza estremamente elevata di
esperienze di perdita, accompagnate da vissuti depressivi (helplessness e
hopelessness) nel periodo immediatamente precedente l'accettazione in
ospedale.
Questi risultati sono stati interpretati come una
conseguenza di vissuti di « rinuncia » da parte dei soggetti nel periodo
precedente la malattia, che avrebbe comportato una modificazione dei terreno
biologico e conseguente comparsa della malattia. Questo lavoro è stato in
seguito criticato sul piano metodologico sia per la mancanza di un gruppo di
controllo che per la definizione eccessivamente vaga ed ampia data al concetto
di perdita. Esso tuttavia è stato importante in quanto ha stimolato la ricerca
successiva sui rapporti tra perdita ed insorgenza di malattie specifiche.
Una significativa presenza di eventi di
separazione e di perdita nel periodo precedente
l'inizio della malattia è stato riscontrato dai diversi Autori nel caso delle malattie
neoplastiche, anche se i dati pubblicati non sono concordi circa il periodo di tempo
intercorrente tra l'evento di perdita e l'inizio della malattia. Anche
nell'artrite reumatoide è stata riscontrata un'aumentata incidenza di eventi
di separazione nei soggetti che hanno sviluppato in seguito la malattia, mentre nel caso dell'artrite reumatoide giovanile è stato rilevato un
elevato numero di episodi di divorzio, di separazione o di morte tra i genitori nell'anamnesi dei bambini affetti dalla malattia. Analoghe
osservazioni sono state fatte nel glaucoma, nella malattia di Cushing, nella colite ulcerosa. Altri Autori
hanno
riportato una elevata incidenza di disturbi somatici di varia natura in
soggetti che avevano subito un'esperienza luttuosa nel periodo immediatamente
precedente a quello dell'inizio dei disturbi. Esiste dunque nel complesso una
chiara evidenza, clinico-epidemiologica in favore di una correlazione
significativa tra alcuni potenti stressors psicosociali come gli eventi di
separazione/perdita e la comparsa di una malattia somatica. Questo rapporto
mostra alcune importanti caratteristiche che vale la pena di sottolineare.
Anzitutto va osservato che il rapporto tra perdita e malattia è di natura
aspecifica. Esso infatti non appare essere specifico per particolari eventi di
perdita, ma sembra semplicemente associato a qualsiasi situazione, comunque
indotta, che provochi un distacco del soggetto da una persona per lui emozionalmente significativa. Inoltre, gli eventi-perdita non sono associati a specifici
quadri di patologia somatica, anche se sembrano essere più frequenti in
malattie croniche a patogenesi su base immunitaria o autoimmunitaria. Ciò suggerisce la possibilità che l'evento perdita
induca modificazioni biologiche,
mediate emozionalmente, di tipo aspecifico che agiscano su di un terreno
biologico predisposto da altri fattori.
In
secondo luogo, il rapporto tra perdita e malattia non è di tipo causale, ma
di tipo statistico-probabilistico. Il che significa che, a livello
individuale, le probabilità che ad uno o più eventi di perdita segua una
malattia somatica sono superiori al caso, ma comunque relativamente basse in
senso assoluto. Nell'etiopatogenesi multicausale di ogni malattia l'evento
perdita ricopre un ruolo significativo, ma assai variabile in rapporto alla «
potenza » degli altri fattori implicati. Accanto ai fattori più strettamente
biologici, hanno un ruolo rilevante lo « stile cognitivo » dei soggetto, i
suoi meccanismi di « coping » ed il tipo di supporto sociale che esso riceve
dall'ambiente. Gli effetti emozionali e, quindi, biologici dell'evento perdita
possono infatti essere ampiamente modulati sia dalle caratteristiche
intrinseche del soggetto che dalla rete di rapporti interpersonali e sociali
di cui esso stesso fa parte.
D'altra
parte, il rapporto tra perdita e malattia dimostra indirettamente gli
stretti rapporti esistenti tra la rete dei rapporti sociali e la reattività
biologica. Qualsiasi struttura sociale, dal più semplice rapporto diadico
fino alle strutture di gruppo più complesse, è basata su legami di
attaccamento che tendono continuamente ad interrompersi e a riformarsi
nuovamente. Attaccamento, perdita e nuovi legami di attaccamento sono infatti le
dinamiche più importanti e profonde di ogni gruppo sociale in quanto sono
essenziali alla sopravvivenza sia del gruppo stesso che dell'individuo che ne
fa parte. Le reazioni biologiche che si accompagnano a queste dinamiche
emozionali tendono dunque ad essere particolarmente intense agendo sia in
senso protettivo che in senso patogeno nei confronti della suscettibilità
alla malattia. L'evento perdita tende infatti ad indurre reazioni
comportamentali destinate a formare nuovi legami di attaccamento, che
possono divenire patologiche (depressione) in particolari circostanze; parallelamente la reazione di stress fisiologico da perdita ha una finalità
adattativa che può diventare patogena se la reazione emozionali da perdita non
trova il suo compenso (fig. 1 0).
Eventi
stressanti e malattia
- l'approccio
quantitativo-psicometrico
-
L'approccio qualitativo descritto nel paragrafo
precedente permette dunque di stabilire che alcune particolari categorie di
eventi, ed in particolare gli eventi di perdita, possono, in alcuni individui ed
in particolari circostanze, contribuire all'insorgenza di varie malattie
somatiche.
L'osservazione
clinica, descrizioni di casi singoli e svariati studi su gruppi di pazienti
hanno suggerito, d'altra parte, la possibilità che vari tipi di eventi
stressanti possano avere un qualche rapporto con l'insorgenza della malattia.
Per quanto riguarda gli eventi con un possibile significato « scatenante »,
Rees ha riportato la presenza di un evento esistenziale scatenante
nella manifestazione di alcune classiche malattie psicosomatiche in una
percentuale di casi oscillante tra il 10 e il 47,5%, mentre in una revisione
degli studi pubblicati prima del 1973 Luborsky ha trovato descritti eventi
stressanti precedenti l'inizio di varie malattie somatiche in una percentuale
di lavori oscillante tra il 3 e il 15% a seconda che venisse considerato il
carattere « scatenante » oppure quello « predisponente » dell'evento.
Tuttavia, il tentativo di trovare con metodi qualitativi
altre categorie specifiche di eventi stressanti, oltre a quelli di perdita, da
associare all'insorgenza di malattie somatiche non ha dato risultati
incoraggianti. Una revisione della letteratura effettuata da Carp sugli
effetti dell'evento pensionamento non ha dato risultati conclusivi anche
se vi è, secondo vari Autori, un generico, ma non dimostrato peggioramento
dello stato di salute dopo il pensionamento. Maggiore importanza sembrano
avere i fattori stressanti legati al lavoro, anche se, per quanto
riguarda almeno le cardiopatie, piuttosto che gli eventi appaiono importanti le situazioni stressanti.
La scarsità di risultati ottenuti con metodi
qualitativi
è dovuta in gran parte a problemi di metodo. Nella maggior parte degli studi
esiste infatti un notevole disaccordo circa la definizione di evento stressante:
spesso si confonde lo stimolo (evento) con la reazione (ad esempio
frustrazione), in altri casi stimolo e risposta vengono definiti in termini
di « schemi » di reazione alla situazione, in altri casi ancora si considerano
come « eventi » condizioni emozionali di tipo intrapsichico. In tutti gli
studi di tipo qualitativo, infine, vengono messi sullo stesso piano eventi ad
elevata potenzialità stressante con eventi scarsamente rilevanti sia sul piano
obiettivo che soggettivo.
Questi problemi hanno fatto sì che gli
unici
risultati significativi ottenuti con metodi qualitativi riguardino gli eventi di
perdita e lutto, che risultano precisamente definibili e posseggono un'elevata
potenza stressante intrinseca.
Negli ultimi anni si è andato sempre più diffondendo un
approccio
di tipo quantitativo al problema dei rapporti tra eventi stressanti e malattia che
ha permesso di superare almeno una parte dei problemi metodologici e procedurali precedentemente descritti. L'assunto di base di questo approccio
quantitativo è che, nella molteplicità degli eventi che agiscono
sull'individuo, ne esistono alcuni che, per la loro frequenza od intensità,
hanno una maggiore potenzialità stressante e che quindi possono essere
utilizzati per compilare liste standardizzate di eventi da utilizzare per
l'esplorazione di gruppi di soggetti in modo omogeneo. Il secondo assunto
dell'approccio quantitativo è che è possibile associare ad ogni evento così
definito un «peso stressante» variabile da evento ad evento, attribuito o con
criteri statistici o con criteri dipendenti dalla valutazione soggettiva
dell'individuo esaminato. Infine, il terzo assunto di questo approccio è che
i punteggi numerici associati ad ogni singolo evento possono essere sommati tra
di loro per ottenere punteggi globali di « stress esistenziale» da poter
correlare con l'insorgenza della malattia somatica o dei suoi precursori.
Sulla base di questi assunti, che verranno discussi in seguito, sono
state messe a punto diverse liste di eventi stressanti da parte di vari
ricercatori. Queste liste sono assai simili tra loro nella struttura
generale e nelle loro modalità di applicazione e differiscono principalmente
per la quantità degli eventi stressanti che vi sono inclusi e per i sistemi di
pesi utilizzati.
Tra i vari strumenti disponibili, due
meritano una particolare
descrizione data la quantità e l'importanza dei risultati clinici conseguiti
mediante la loro applicazione: lo Schedule of Recent Experience (SRE) ideato da
Holmes e Rahe, ed il Life Experience Survey (LES) messo a punto da Sarason e
Johnson.

Lo
SCHEDULE of RECENT
EXPERIENCE (SRE)
Sulla base dei dati ricavati da un
preesistente questionario, ed in seguito ad una serie di studi clinici
eseguiti presso l'università di Washington, Rahe e coll. nel 1964 (84) hanno
isolato una serie di 43 eventi che appaiono con frequenza significativa prima
dell'inizio di molte malattie somatiche. Partendo da tale lista di eventi,
Holmes e Rahe nel 1967 misero a punto un sistema di «pesi» per gli
eventi di questa lista che tenesse conto del diverso impatto potenziale e del
diverso sforzo di riadattamento richiesto da ogni evento. Il metodo seguito fu
quello di Stevens per ottenere una misura o « peso sociale» per ognuno
degli eventi considerati. Una lista dei 43 eventi fu somministrata a 400 soggetti
normali, randomizzati per sesso, età, razza, religione, classe sociale e
livello di istruzione. Ad uno di questi avvenimenti (matrimonio) fu attribuito
un valore fisso arbitrario pari a 500; i soggetti furono quindi invitati a
dare un valore numerico superiore o inferiore a questo punto di riferimento in
rapporto all'importanza che veniva attribuita a tutti gli altri avvenimenti
della lista. I valori così ottenuti furono quindi normalizzati, e le voci
riordinate in rapporto alla loro importanza decrescente. La lista così ottenuta
fu denominata Social Readjustment Rating Scale (SRRS) e lo strumento da
essa derivato per l'uso clinico fu chiamato Schedule of Recent Experience (SRE).
La SRE risulta così composta da un questionario di 43 voci, successivamente
ridotte a 42, che viene riempito dal paziente stesso sulla base degli eventi
che hanno agito sulla sua vita nel periodo di tempo precedente l'inizio della
malattia. Per il calcolo del profilo temporale degli eventi stressanti
vengono sommati i punteggi relativi agli avvenimenti stressanti in un
determinato periodo (Life Change Units = LCU) e riportati in un grafico che
esprime la quantità di cambiamento della vita nel periodo di tempo
considerato (fig. 1 1).
Il LIFE EXPFRIENCE
SURVEY'(LES)
Il
LES
è stato messo a punto da Sarason e Johnson (87) in seguito a talune
critiche mosse allo strumento precedente. La più importante di tali critiche riguarda il fatto che il metodo SRE non tiene conto dell'impatto differenziale
che lo stesso evento può avere su diversi individui. In particolare, esso non
tiene conto della desiderabilità o non desiderabilità dell'evento né della
differenza tra emozioni positive o negative associate all'evento medesimo. Sulla
base di queste considerazioni, il LES si presenta come uno strumento
che permette una valutazione numerica della desiderabilità dell'evento compreso
nella lista standardizzata e che permette una valutazione quantitativa
dell'effetto dell'evento sulla vita dei soggetto. Il LES è costituito da una
lista di 47 eventi, in gran parte coincidenti con la lista di avvenimenti che costituiscono la
SRE. La differenza rispetto a
quest'ultima è costituita
dalla possibilità di una valutazione numerica dell'evento lungo una scala a
sette punti, in base all'impatto « positivo » o « negativo » che l'evento ha
avuto nella vita del soggetto. Sommando i punteggi, è possibile ottenere, per
ogni intervallo di tempo considerato, un punteggio di cambiamento negativo (Negative
Change Score), un punteggio di cambiamento positivo (Positive Change
Score) ed un punteggio di cambiamento totale (Total Change Score). Questi
punteggi possono essere utilizzati per costruire profili temporali di stress
analoghi a quelli ottenibili con il SRE (fig. 1 1).
La validità
e
la fedeltà del SRE è stata oggetto di numerosi studi sia negli USA che in popolazioni non americane e in studi
di tipo transculturale. I risultati di questi
studi tendono a suggerire che, nel caso di popolazioni di cultura occidentale,
si rileva una concordanza significativa nei pesi dati alle diverse voci della
SRE, pur rilevandosi alcune ovvie differenze di natura transculturale.
L'
ampia
letteratura esistente sullo strumento ha fatto sì che esso sia attualmente il
più diffuso in psicosomatica, nonostante le critiche che gli sono state rivolte
e nonostante
la probabile maggior efficacia di strumenti, come il LES, che tengono conto
della valutazione soggettiva dell'importanza dello stimolo (105). A prescindere
comunque dalle differenze tra gli strumenti usati, che si basano sulla medesima
« filosofia valutativa », si deve osservare che l'uso sistematico dell'approccio quantitativo ha permesso di ottenere importanti informazioni sui rapporti tra eventi di significato psicosociale e malattia.

Eventi stressanti e malattie
cardiache
Il
campo delle malattie
cardiache, nei suoi rapporti con gli eventi stressanti esistenziali, è stato
finora quello più studiato sia per l'importanza sociale di tali malattie che
per l'evidenza clinica della frequente insorgenza della malattia quale
conseguenza di una lunga esposizione a stressors psicosociali di varia
intensità.
In uno studio retrospettivo non controllato Rahe e coli. hanno rilevato
come in soggetti
colpiti
da infarto del miocardio fosse rilevabile un netto aumento dei valori di LCU
nel periodo immediatamente precedente l'insorgenza dell'infarto (106).
Risultati analoghi sono stati ottenuti da Pancheri e coll. (107) in uno
studio retrospettivo con gruppi di controllo in cui sono stati valutati sia i
LCU che i punteggi di cambiamento negativo, positivo e totale con il LES. In
questo studio è stato messo in evidenza che l'aumento dei punteggi di stress
era attribuibile soprattutto agli eventi negativi, e che questi ultimi erano
particolarmente
accentrati negli ultimi tre anni precedenti la malattia (fig. 12)
L'importanza
dell'accumulo di eventi stressanti significativi nel periodo precedente la
malattia è stata sottolineata da una serie di studi di Rahe e coll. che hanno mostrato un netto aumento dei valori di LCU nell'anno o nei
sei mesi immediatamente precedenti l'infarto; l'elevazione era particolarmente netta nei casi di morte cardiaca
improvvisa.
In
uno studio prospettive eseguito su soggetti con segni di sofferenza coronarica,
Theorell e Rahe (110) hanno trovato un significativo aumento dei valori medi
di LCU in quei soggetti che erano in seguito deceduti per infarto, suggerendo
così una maggiore compromissione delle condizioni cardiache nei soggetti
esposti ad una maggior quantità di eventi stressanti prima dell'infarto. In
questo medesimo studio era stata rilevata una correlazione positiva
statisticamente significativa tra aumento di LCU ed escrezione di catecolamine
urinarie nei soggetti successivamente deceduti.
L'importanza,
sul decorso a breve termine dell'infarto, dell'accumulo di eventi stressanti a
connotazione negativa nel periodo precedente l'infarto è stata osservata
anche in uno studio di Pancheri e coll. (111), che ha messo in evidenza una
maggiore incidenza di complicanze ed una prognosi peggiore in quei soggetti
che avevano avuto una maggiore incidenza di eventi negativi nel periodo di tre
anni precedenti la malattia (fig. 13). In questo studio è stata osservata anche
una correlazione positiva tra punteggio di eventi negativi pre-stress ed
attivazione dell'asse ipotalamo- ipofisi-corticosurrene durante l'infarto.
La
correlazione tra punteggi di eventi stressanti (LCU) e variabili biologiche
suscettibili di influenzare il decorso della malattia è stata osservata anche
da altri Autori per quanto riguarda l'escrezione di adrenalina ed i valori
ballistocardiografici (112, 113).
 
L'importanza
di un accumulo di eventi stressanti esistenziali nelle malattie coronariche è
stata anche confermata da studi su popolazioni gemellari (114) e da studi che
hanno esaminato i LCU come fattori di rischio
coronarico a confronto con altri, più tradizionali, fattori di rischio (115).
Va
d'altra parte osservato che altri studi, pur confermando l'importanza di un
accumulo di eventi stressanti nel periodo preinfartuale, hanno richiamato
l'attenzione oltre che sulla quantità, anche sulla qualità degli eventi e
delle situazioni stressanti, con particolare riferimento alle aree dei lavoro
e della vita famigliare.
I
dati disponibili tendono comunque a deporre per un effetto « preparatorio »
nei confronti della malattia coronarica da parte di un accumulo o di una
particolare densità di eventi esistenziali stressanti nel periodo immediatamente precedente la malattia, a
prescindere dalla qualità di tali
eventi anche se gli eventi a connotazione negativa sembrano caratterizzati da
una maggiore potenzialità patogena. In realtà, va osservato che l'aumento dei
punteggi di eventi stressanti prima dell'infarto non è specifico per questa
malattia, come si vedrà in seguito, e che le correlazioni riscontrate, pur
essendo statisticamente significative, sono in genere piuttosto basse.

La possibilità che l'insorgenza di alcuni
tumori
sia in rapporto a taluni eventi esistenziali, suggerita dagli studi qualitativi,
è stata sottoposta anche ad indagini di tipo quantitativo.
Uno
studio di Schonfield sui tumori della mammella non ha trovato differenze
rilevanti tra carcinomi e tumori benigni al di fuori di un modesto maggiore
aumento di LCU in questi ultimi prima dell'inizio della malattia (116). Pancheri
e coll. hanno confermato l'assenza di differenze, significative tra tumori benigni e maligni dell'utero nei profili temporali di eventi stressanti misurati
sia con il SRE che con il LES (107, 117). Ad analoghe conclusioni sono
giunti Biondi e coll. in uno studio controllato sui tumori della mammella (118).
In questi studi, effettuati con gruppi di controllo omologhi (tumori maligni vs.
tumori benigni), pur essendovi un modesto aumento dei punteggi di cambiamento
negativo nell'anno immediatamente precedente l'insorgenza dei tumore, i
profili temporali di stress si mostravano tendenzialmente piatti suggerendo, sia
nei malati affetti da patologia benigna che maligna, una scarsa incidenza di
eventi stressanti o una difficoltà a memorizzarli (fig. 14).
Alcuni dati interessanti emergono da uno studio
recente di Leher (119) sui rapporti tra eventi stressanti e tumori
gastrointestinali. In questo studio è stata messa in evidenza una significativa
incidenza di eventi stressanti (misurati mediante i LCU) nel tumore gastrico
rispetto al tumore colorettale ed ai controlli nei due anni precedenti
l'insorgenza dei primi sintomi (fig. 1 5). Inoltre, in questo studio è stata
messa in evidenza una correlazione inversa tra LCU ed età nei pazienti
affetti da carcinoma gastrico.
Nel loro complesso, i dati ottenuti con
metodi
quantitativi nel campo dei tumori sono meno indicativi di quelli relativi alle
cardiopatie. Mentre infatti in alcune forme tumorali si rileva un aumento di
eventi stressanti prima della malattia, in altre si osserva una relativa
povertà o scarsità di tali eventi, che sembra essere una caratteristica di
tutta la vita precedente
dei paziente. Questa relativa povertà di eventi stressanti associata
tuttavia, come si è visto, alla presenza di singoli eventi di perdita ad
elevata potenzialità stressante sembra essere la caratteristica fondamentale
della malattia tumorale (60, 120, 121).

Anche
nel campo delle malattie respiratorie i metodi quantitativi hanno dato risultati
interessanti. Jacobs e coll. utilizzando una versione modificata dello SRE
hanno trovato, nell'anno precedente l'insorgenza di disturbi respiratori di
vario tipo, un significativo aumento
di eventi valutati come « spiacevoli » (122). Totman e coll., in uno studio
basato sulla risposta all'infezione sperimentale in volontari sani mediante
virus dei raffreddore, hanno trovato una relazione significativa tra eventi
stressanti precedenti l'infezione e gravità dell'infezione stessa (123).
E'
stato visto inoltre, in alcuni studi condotti sull'asma bronchiale cronica,
che i pazienti con bassi valori di LCU richiedono mediamente quantità
inferiori di corticosteroidi di quanto non richiedano pazienti con valori più
elevati (124, 125). D'altra parte, Pancheri e coll. (107) hanno mostrato
che sia nell'asma bronchiale che nella rinite allergica vi è un netto aumento
dei punteggi di eventi stressanti
esistenziali
(misurati sia con lo SRE che con il LES) negli anni precedenti l'inizio della
malattia. Di particolare interesse, in queste malattie, è l'aumento
riscontrato nel punteggio di cambiamento positivo (eventi valutati come positivi
dal soggetto) che non è riscontrabile in altre malattie (fig. 16).

I
metodi quantitativi di valutazione degli eventi
stressanti sono stati utilizzati in numerose forme morbose al fine di stabilire
in modo quantitativo i possibili rapporti tra alcuni fattori psicosociali e le
modificazioni del terreno biologico che possono favorire l'insorgenza della
malattia.
Nel
campo dei diabete pancreatico è stato riferito un aumento significativo
di LCU prima della malattia, ma soprattutto è stata vista una corrispondenza
tra eventi stressanti e decorso della malattia stessa (126, 127, 128).
Per
quanto riguarda l'ulcera duodenale, uno studio condotto su pazienti
operati ha mostrato un netto aumento di LCU nell'ultimo anno prima
dell'intervento, ed una successiva correlazione positiva tra disturbi residui e
valori di LCU in un periodo di follow up di quattro anni (129). Un aumento di
punteggi di eventi stressanti, soprattutto a connotazione negativa, è stato
trovato da Pancheri e coll. (107) in un gruppo di pazienti affetti da ulcera
duodenale e da morbo di Crohn, nei 4-5 anni precedenti l'inizio della sintomatologia (fig. 17).
Nel
campo pediatrico vari
studi condotti con l'approccio quantitativo hanno dimostrato che la quantità di
eventi stressanti a cui è sottoposto il bambino può condizionare sia la sua
suscettibilità a varie malattie, sia il decorso delle medesime una volta che si
siano instaurate (130, 131, 132).
Altri
studi hanno trovato un aumento di LCU prima dell'insorgenza dell'artrite
reumatoide giovanile (133), una maggiore incidenza di eventi a
connotazione negativa in rapporto alla sindrome premestruale (134), ed
una correlazione tra entità degli eventi stressanti esi stenziali
e gravità della malattia somatica (135). Oltre a questi studi centrati
su malattie specifiche
vanno ricordati i lavori relativi ai rapporti tra LCU e tendenza ad
ammalare. Benché questi studi siano
di rilevante interesse metodologico in quanto condotti prevalentemente con metodo prospettive e su rilevanti casistiche, va tuttavia osservato che in essi in
genere non vi è una sufficiente distinzione tra i costruiti
«
sviluppo di una malattia somatica » e « manifestazione di disturbi somatici
».
La
distinzione appare di notevole importanza dal punto di vista psicosomatico,
quando si tenga presente la differenza tra la malattia somatica vera e propria,
accompagnata da alterazioni anatomofunzionali a livello tessutale ed il
cosiddetto illness behavior (143) caratterizzato piuttosto da una
ridotta soglia di tolleranza nei confronti di disturbi funzionali transitori e
da una accentuata tendenza a comunicare il proprio stato di sofferenza.

CONSIDERAZIONI
CRITICHE SUI METODI QUANTITATIVI
Il
dato comune che può essere
estratto dall'abbondante letteratura sui metodi quantitativi di valutazione
è che in genere, prima dell'insorgenza di talune malattie somatiche, si verifica
un aumento di eventi stressanti di varia natura e di vario « peso ».
In parte, questo aumento di eventi
stressanti
espresso da un andamento crescente coi tempo dei profili temporali di stress può
essere dovuto al fatto che gli avvenimenti della vita, soprattutto i meno
importanti, tendono ad essere dimenticati in misura tanto maggiore quanto più
tempo è passato dall'evento. E' stato fatto notare infatti che gli eventi
tendono ad essere normalmente dimenticati al ritmo dei 5% al mese in media,
anche se vi sono ampie oscillazioni in rapporto al tipo di eventi ed al periodo
preso in considerazione (144). Va dunque tenuto presente, in tutti gli
studi di natura retrospettiva, che esiste una normale e fisiologica tendenza a
riferire un maggior numero di eventi stressanti mano a mano che l'indagine si
sposta verso tempi più.vicini al presente. Il confronto dei gruppo patologico
in esame deve essere dunque fatto verso adeguate popolazioni di controllo che
permettano di inserire un fattore di correzione sui dati raccolti.
Una
seconda considerazione riguarda il fatto che lo stato emozionale attuale del soggetto può influenzare sia la rievocazione degli eventi stressanti che la
sua valutazione soggettiva.
La valutazione attuale dell'evento, in termini di desiderabilità o non
desiderabilità, tende infatti ad essere in larga misura influenzata dallo
stato presente e non dalle emozioni suscitate dall'evento nel momento in cui si
è verificato. A questo proposito va rilevato che, mentre alcuni studi
sperimentali avrebbero minimizzato l'importanza dello stato emozionale attuale
(145), altri studi clinici avrebbero invece confermato la notevole importanza
dell'ansia di stato nella valutazione degli eventi (107). Né vanno,
infine, trascurati i fattori legati alla struttura della personalità del soggetto che possono direttamente o
indirettamente influire sullo stato
emozionale e, quindi, sulla valutazione dell'evento (150).
Esiste
poi il problema di quanto gli eventi presi in considerazione nelle liste
standardizzate siano eventi esistenziali che « accadono » all'individuo in
conseguenza di determinanti casuali o psicosociali esterni, e di quanto invece
non siano almeno in parte provocati dall'individuo stesso.
In
realtà, ogni evento può essere considerato almeno parzialmente come indotto
da alcuni comportamenti o motivazioni non consapevoli dell'individuo. Non
solo, ma gli eventi precedenti possono predisporre l'individuo a provocare,
consciamente o inconsciamente, eventi successivi (129, 146).
Talvolta,
un evento può essere inconsciamente provocato da un individuo per scaricare
una condizione di ansia repressa tale da non poter più essere gestita
adeguatamente. In questo caso, evidentemente, l'evento non rappresenta una
modificazione dell'omeostasi, con successivo bisogno di riadattamento e relativi correnti fisiologici (potenziali precursori della malattia), ma una
scarica liberatoria dell'ansia che può assumere un significato opposto
(fig. 18).
Resta,
infine, aperto il problema di fondo legato a tutti i metodi di valutazione
quantitativa degli eventi stressanti: la necessaria limitazione del numero e
del tipo degli eventi prescelti. Tutte le liste standardizzate attualmente in
uso si basano su eventi scelti con criteri probabilistici e statistici tra la
molteplicità degli eventi esistenziali che agiscono sui singoli individui
nel corso delle loro vite. Si tratta infatti di eventi di carattere generale
che non tengono conto del potenziale stressante di eventi di piccola entità se
valutati statisticamente, ma che possono avere un potere dirompente per un
singolo individuo in una particolare fase della sua vita.
Nonostante
queste obiezioni e questi problemi, i metodi di valutazione quantitativa degli
eventi stressanti rappresentano oggi l'unico modo per poter affrontare in modo
sistematico il problema dei rapporti tra eventi esistenziali, generati nel
contesto psicosociale, e malattia. L'esperienza clinica e di ricerca raccolta
finora, e la consapevolezza di queste difficoltà, sono infatti destinate a
perfezionare ulteriormente la metodologia per ottenere più validi risultati.

STRESS PSICOSOCIALE E
MECCANISMI PATOGENETICI
Gli studi epidemiologici, le indagini cliniche su fattori psicosociali
specifici e la ricerca sistematica sugli eventi stressanti dimostrano dunque
che la struttura sociale e la rete relazionale che da essa dipende possono
esercitare, in alcune condizioni, un'azione patogenetica nei confronti di alcune
malattie.
Attualmente non vi sono tuttavia elementi certi che permettano di
associare in modo biunivoco
particolari determinanti psicosociali a malattie specifiche. Infatti tutti i determinanti psicosociali esplorati tendono a suggerire un'azione di tipo
aspecifico sul terreno biologico con un effetto di tipo predisponente nei
confronti della malattia.
Per poter comprendere i legami che
connettono gli
stimoli psicosociali alla malattia somatica dobbiamo analizzare separatamente
tre aspetti del problema: la natura degli stimoli, la valutazione cognitiva ed
i meccanismi di « coping » dell'individuo, e la reazione psicobiologica
successiva.
La natura degli stimoli
L'ambiente psicosociale agisce sui singoli
individui essenzialmente attraverso eventi o situazioni stressanti. La ricerca
sugli eventi stressanti ha suggerito, come si è visto, che avvenimenti
esistenziali ripetuti e tali da richiedere uno sforzo di riadattamento notevole
all'individuo, possono portare a modificazioni dei terreno biologico che
favoriscono la malattia. Anche se meno studiati, sono però probabilmente più
importanti, sul piano patogenetico, microstimoli quotidiani ripetuti
caratteristici delle situazioni stressanti protratte nel tempo che inducono
condizioni di attivazione emozionale cronica.
Mentre infatti
l'evento stressante, per la sua
natura generalmente acuta e circoscritta, tendo a produrre un'attivazione
emozionale « fasica » e a stimolare comportamenti di natura correttiva, la
situazione stressante induce invece un'attivazione emozionale « tonica» e
rende più difficile l'attivazione di comportamenti di compenso (fig. 19).
Va ricordato a questo proposito che gli eventi
stressanti non possono essere considerati, in se stessi, come patogeni. La
vita infatti è caratterizzata, sia a livello animale che a livello umano
associato, da una serie di « eventi stressanti » che inducono un'attivazione
emozionale, con correlati biologici e comportamentali finalizzati a
riadattare l'individuo alla nuova situazione. Questo processo va considerato
come fondamentalmente fisiologico e,
nel
suo insieme, utile sia sul piano biologico che comportamentale all'individuo.
La
vita associata, tuttavia, oltre a generare « eventi » genera un gran numero di
condizioni o situazioni croniche che l'individuo deve subire o che non riesce
a gestire adeguatamente. Ciò può verificarsi per impossibilità obiettiva di
cambiare la situazione con comportamenti adeguati o perché la natura sottile e
mascherata della stimolazione psicosociale non permette all'individuo di
identificare esattamente la natura dello stressor.

L'individuo, nella sua vita associata, vive
immerso in una molteplicità di stimoli che tendono a modificare le sue
condizioni precedenti e che richiedono un'azione continua di riadattamento.
L'apparato cognitivo, conseguenza dello sviluppo corticale dell'uomo, funge tuttavia
da « filtro » nei confronti degli stressors esterni (e interni) facendo sì
che si verifichi solo in alcuni casi un'attivazione emozionale, con i suoi
correlati comportamentali e biologici. Più precisamente, l'attivazione
emozionale viene modulata dall'apparato cognitivo in funzione di esigenze
adattative precise legate alla sopravvivenza individuale, alla sopravvivenza
della specie o alla conservazione dei legami sociali.
Sia
nel caso di eventi che di situazioni stressanti, la reazione emozionale che
ne consegue dipende dunque, oltre che dall'intensità « obiettiva » dello
stressor, da diversi fattori quali il ricordo di esperienze precedenti e delle
relative modalità di controllo, associazioni a livello simbolico con altri
eventi o situazioni, inferenze anticipative sulle conseguenze dell'evento e
consapevolezza delle conseguenze delle proprie reazioni sulla rete di rapporti
sociali ed interpersonali (fig. 20). Tutti questi fattori, che sono altamente
specifici per ogni individuo,
condizionano
dunque sia il comportamento che la reazione biologica che si accompagnano
all'attivazione emozionale e possono, di conseguenza, agire sul substrato
biologico.
La
reazione
psicobiologica
L'attivazione emozionale che consegue,
tramite la mediazione
cognitiva, alla stimolazione psicosociale, si esprime attraverso comportamenti
finalizzati e modificazioni biologiche caratteristiche. L'insieme delle
variazioni comportamentali e biologiche che si verificano in seguito
all'azione di stimoli di varia natura è conosciuto come reazione di stress
ed è una risposta finalistica ed adattativa dell'organismo che ne potenzia
le capacità di sopravvivenza.
Nello
stress, vengono fondamentalmente attivati
tre sistemi biologici adattativi, le cui funzioni sono strettamente
interdipendenti: il sistema neurovegetativo, il sistema neuroendocrino-endocrino
e il sistema immunitario. L'attivazione di questi tre sistemi ha la fondamentale
funzione di adattare l'organismo alle richieste ambientali e di fornire un
supporto biologico-metabolico al comportamento e all'azione (fig. 21).

Nello
stress questi tre sistemi modificano il loro stato funzionale in via transitoria e reversibile per ottimizzare
l'adattamento e la difesa dell'organisino. In condizioni di stimolazione cronica, come può avvenire nelle
situazioni stressanti o per inefficacia dei meccanismi di coping si può
verificare una condizione di attivazione biologica cronica a carico di uno o più
sistemi, con modificazione delle difese biologiche dell'organismo. In altri
casi, invece, può verificarsi una carenza cronica della reazione di stress,
per un'azione preponderante dei filtro cognitivo o per altre ragioni, che
porta ad un'iporeattività cronica dei sistemi biologici di difesa che possono
essere sopraffatti di fronte ad una successiva, violenta stimolazione
emozionale.
Le
modificazioni biologiche persistenti, che fanno seguito ad entrambe queste
condizioni di alterata risposta di stress, vengono definite come precursori
biologici della malattia. Essi non sono ancora malattia, in quanto le riserve funzionari dei vari sistemi sono in grado di compensare la situazione, ma
possono diventarlo quando un qualsiasi fattore intera- gente faccia
precipitare il precario equilibrio biologico raggiunto a quel momento.
Il
problema dell'integrazione psicobiologica
Lo
studio degli stimoli di origine psicosociale che agiscono sull'individuo, le
conoscenze relative ai meccanismi cognitivi implicati nella valutazione di
tali stimoli e tutte le evidenze clinico-sperimentali raccolte in quasi
cinquanta anni di ricerca sullo stress non danno una risposta al quesito sui
meccanismi ultimi che collegano stimoli ambientali, reazioni emozionali,
risposte somatiche e malattia.
Ci
troviamo oggi infatti nelle condizioni di conoscere in modo abbastanza
soddisfacente la relazione che esiste tra alcuni eventi psicologico-emozionali e la risposta
somatico-bio logica, ma di conoscere molto poco
sui mediatori interessati in tale relazione. La ricerca sull'anello di
congiunzione tra psichico e somatico è stata in effetti da sempre al centro
della ricerca e dei vari modelli interpretativi formulati con vario successo
nella storia della psicosomatica.
La mancata risposta a questo problema di fondo
della medicina psicosomatica è da ricercarsi in due ordini di fattori.
Anzitutto nell'errore di metodo commesso da molti ricercatori di cercare un
rapporto tra stati psichici e malattia invece di analizzare le relazioni tra
emozioni e precursori della malattia medesima. Il secondo ordine di fattori è
invece da ricercarsi nelle insufficienti conoscenze a livello neurofisiologico
e neurochimico che, fino a tempi molto recenti, non hanno permesso di formulare
modelli soddisfacenti di tipo integrativo.
Negli ultimi anni, la rivoluzione avvenuta nel
campo delle conoscenze della psiconeuroendocrinologia e della neurochimica ha
permesso
di vedere il problema in modo completamente nuovo. In particolare, la scoperta
di numerose sostanze di natura polipeptidica presenti contemporaneamente nel
sistema nervoso centrale e nei tessuti periferici ha suggerito la possibilità
di un nuovo modello interpretativo in psicosomatica, basato sulla documentata
azione di tali sostanze sia a livello nervoso centrale che tessutale periferico.
Gli
stessi polipeptidi che, a livello periferico, esercitano la loro azione
organodinamica e metabolica, a livello centrale esercitano un'azione che,
quasi sempre, appare funzionalmente correlata all'azione biologica tessutale.
Ogni funzione somatico-biologica avrebbe dunque una sua rappresentazione
biochimica a livello del SNC nella forma biochimica del polipeptide
corrispondente. Gli stimoli psicosociali attiverebbero dunque sistemi
integrati biologico- comportamentali controllati da medesimi sistemi
polipeptidici in modo sinergico e coordinato. A livello dell'organo cervello
questi sistemi polipeptidici agirebbero dunque modificando il comportamento e
le emozioni, mentre a livello degli organi periferici agirebbero,in base alla
loro azione specifica per l'organo in cui si trovano situati.
Lo
stimolo psicosociale, così come uno stimolo di origine intrapsichica, viene così
ad attivare elettivamente un «programma» biologico-comportamentale
controllato da uno o più sistemi polipeptici specifici responsabili di un'area
di risposta psicosomatica dell'organismo. Possono essere così identificati
alcuni sistemi polipeptidici integrativi di base quali il sistema
dell'azione, il sistema della riproduzione, il sistema del piacere-dolore e il
sistema di supporto delle funzioni biologiche elementari. Nell'ambito di ogni
sistema, comportamento e biologia dell'organismo si modificano in modo integrato
per ottimizzare le finalità adattative e difensive dell'individuo.
Questo
modello interpretativo, che verrà discusso in modo più dettagliato in
capitoli successivi, sposta ad un livello più alto il problema dell'anello di congiunzione
tra psichico e somatico dando una
spiegazione soddisfacente per molti problemi ancora insoluti, anche se
ovviamente non rappresenta una spiegazione definitiva.
Esso infatti permette di interpretare tutto ciò che avviene a valle della
mediazione cognitiva, spiegando sia la bilancia biologico- comportamentale che
la possibile insorgenza di precursori della malattia ogni volta che il suo
regolare svolgersi è inibito e disturbato. Esso tuttavia non appare ancora in
grado di spiegare i meccanismi che sovrintendono ai processi di filtro cognitivo
dello stimolo psicosociale e, soprattutto, ai meccanismi cognitivi di coping.
Allo stato attuale della ricerca psicosomatica
possiamo dunque dire che sappiamo che certi fenomeni avvengono,
conosciamo in una certa misura come avvengono, ma ancora non sappiamo
perché avvengono.
A cura di:

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lavoro di questa pagina fa riferimento e riporta in gran parte letteralmente
testo e figure edite nel "Trattato di Medicina Psicosomatica", ed.
USES, 1984, cap. 2, vol 1, il cui autore è il Prof. Paolo Pancheri, professore
ordinario di Clinica Psichiatrica, Università di Roma, nonchè direttore della
SIMP, Società Italiana Medicina Psicosomatica |